4 novembre: nonni in guerra
Il 4 novembre, ricorrerà l’annuale Festa delle Forze Armate, una particolare attenzione sarà dedicata alla memoria dei caduti della Prima Guerra mondiale. E' il centenario.
Qualche tempo fa scrissi un post che raccontava dell’esperienza dei miei nonni, fanti durante la Grande Guerra e le loro vicissitudini. Raccontavo di come uno di loro, per avere riconosciuto il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, dovette fare domanda, accompagnandola con un resoconto autobiografico, della “sua guerra”. Noi abbiamo ancora una buona parte di questo scritto, che però è la relazione di un contadino, nato più di cento anni fa ed è scritto italianizzando il dialetto della propria terra.
Il nonno scrisse così:
“Fui chiamato alle armi il cinque marzo 1917.
In forze al 1° Reggimento Fanteria Sacile.
Ai primi di maggio, finito il C.A.R. (cioè il centro addestramento reclute), venni inviato in zona di guerra, sul fronte del Carso; mi sembra di ricordare al 229° Reggimento Fanteria… Ma non ricordo bene. Fui inviato a Dobbiaco , sul Vipaco , sul bivio di Castegnevizza… No, sul Vipaco ci fui mandato dopo l’offensiva di Maggio dove lì, di un intero battaglione ne sopravvissero 85 o 58 uomini.
Insomma, ho cambiato fronte tre o quattro volte, ma sempre sul Carso.
A metà novembre dello stesso anno (il 1917), i tedeschi scatenarono un’offensiva che sfondò il fronte . In quel periodo (io ed i miei commilitoni) ci trovavamo a riposo nelle retrovie a Codroipo . Sul finire dell’offensiva tedesca, tutto il mio battaglione venne caricato su di una tradotta ed inviato a Gemona, nel Friuli. Viaggiammo tutta la notte e quando la mattina giungemmo a destinazione, si iniziò la salita sui monti sopra Gemona, per raggiungere gli altri, dove i tedeschi avevano sfondato il fronte. In quel punto del fronte vi sostammo due giorni poi, al terzo, i tedeschi arrivarono a ridosso delle nostre postazioni e ci fu dato l’ordine di proteggere la ritirata .
Ma prima che noi giungessimo a Gemona, i tedeschi ci aggirarono e quando vi giungemmo anche noi, li trovammo già lì.
Era il giorno 29 ottobre 1917 e ricorderò sempre la data di quel giorno, perché fu allora che cominciò il mio martirio: lì a Gemona.
I tedeschi ci fecero prigionieri e ci ricoverarono nel palazzo della Prefettura dove ci tennero tre giorni, senza mangiare e senza bere. Nella Prefettura vedemmo un pozzo, ma non vi era la possibilità di attingere acqua da questo, perché non c’era né una corda, né un secchio e questo era profondo almeno otto metri! Ma la sete era tanta, troppa! E così aiutandoci a vicenda, pensammo di costruire una sorta di fune utilizzando le cinture dei pantaloni e, fissata ad uno dei capi, di questa sorta di corda una gavetta, la usammo per attingere l’acqua per dissetare un’intera compagnia di soldati.
Alla sera del terzo giorno , ci dissero che dovevamo metterci in marcia per Tarcento e là ci avrebbero finalmente dato da mangiare. Allora tutti contenti, ci preparammo per partire e ci si apprestava a metterci in viaggio, incolonnati uno dopo l’altro, quando scoprimmo che lì, vicino a noi c’era una latteria e quindi doveva esserci tanto formaggio!... E ne fui sbalordito dalla quantità che ce n’era, ma ad ognuno di noi ne diedero soltanto un quadrettino di pochi centimetri di lato. Potrei dire un paio di bocconi soltanto!!
Comunque partimmo di lì, nonostante tutto contenti, perché ci dissero che a Tarcento ci avrebbero dato da mangiare. Si partì quindi da Gemona e giungemmo a Tarcento verso le tre del mattino. Non appena scorgemmo i primi soldati, domandammo loro: “avete mangiato?” Ma loro domandarono a noi: “avete portato qualcosa da mangiare?” E così, da queste reciproche domande, capimmo sia gli uni che gli altri, che risposte affermative ad entrambe le domande, non ce n’erano.
Delusi alzammo gli occhi e vedemmo, ancora in piena notte, tantissimi piccoli fuochi sparsi un po’ ovunque e domandammo cosa fossero quei fuochi. Ci venne risposto: “questo è il campo di concentramento …”. E noi era tre giorni che non si mangiava! Domandammo dove almeno potessimo dissetarci. Ci fu spiegato, che l’unico modo per bere era accontentarsi di un rigagnolo che passava attraverso il campo, perché in quel posto non c’era altra acqua. Fortuna che almeno quello fu un autunno caldo e certamente non avremmo sofferto troppo il freddo . Evidentemente Dio aveva provveduto anche a quello, ascoltando le preghiere dei prigionieri.
Esaminai l’intero campo e decisi di tenermi sempre nei pressi della strada; da quella posizione si poteva vedere se fossero arrivati dei viveri per i prigionieri.
Un giorno vidi passare una quarantina di soldati (prigionieri), scortati da una guardia tedesca. In quel momento seguii soltanto il mio istinto: senza pensarci troppo, mi buttai in mezzo a quel drappello, senza che nessun tedesco se ne accorgesse e con quei prigionieri, fui portato a Santa Maria di Tolmino . Fu solo lì che ricevetti una scatoletta di carne di maiale bollita ed il suo liquido di conserva, divenne una specie di brodo che mi dissetò.
Lì sostammo una decina di giorni, perché dovevano essere portati gli ordini al comando sul monte S. Maria. Dopo un po’ non ci diedero più una scatola al giorno di carne ed acqua bollita! Al termine di questo breve periodo di sosta, ci ordinarono di metterci in marcia. E così, una mattina partimmo e lungo la strada che stavamo percorrendo, incrociammo una colonna militare e ci dissero di accodarci a loro perché al termine, avremmo finalmente potuto sfamarci.Si camminò tutta la giornata e la sera, fino a mezzanotte. E fu solo a mezzanotte che diedero, ad ognuno di noi, un mestolo di acqua fredda con dentro sciolta un poco di farina. Forse doveva essere della polenta? Ma era così liquida che non fu necessario neppure il cucchiaio: ci bastò berla…”
Il resoconto del nonno purtroppo finisce qui, il resto si è perso.
Come avevo scritto, questo tormento continuo della fame, è il carattere ricorrente del racconto e forse di tutti i racconti di questi uomini. La stessa Croce Rossa ha sottolineato che molti dei prigionieri italiani sono stati lasciati morire di fame dalla loro Patria. E questa è la storia, triste! Immagino anche senza assistenza medica… Visti anche i numeri che riguardano i soldati di tutte le parti in guerra, assistere tutti forse era impossibile.
È doveroso ricordare, ma sarebbe saggio ed ancor più doveroso, non rifare mai gli stessi errori e quindi non ripetere soprattutto, l’errore della guerra che non è, come scriveva Marinetti: “la sola igiene del mondo!”
Manuela Mariuzzo
Qualche tempo fa scrissi un post che raccontava dell’esperienza dei miei nonni, fanti durante la Grande Guerra e le loro vicissitudini. Raccontavo di come uno di loro, per avere riconosciuto il titolo di Cavaliere di Vittorio Veneto, dovette fare domanda, accompagnandola con un resoconto autobiografico, della “sua guerra”. Noi abbiamo ancora una buona parte di questo scritto, che però è la relazione di un contadino, nato più di cento anni fa ed è scritto italianizzando il dialetto della propria terra.
Il nonno scrisse così:
“Fui chiamato alle armi il cinque marzo 1917.
In forze al 1° Reggimento Fanteria Sacile.
Ai primi di maggio, finito il C.A.R. (cioè il centro addestramento reclute), venni inviato in zona di guerra, sul fronte del Carso; mi sembra di ricordare al 229° Reggimento Fanteria… Ma non ricordo bene. Fui inviato a Dobbiaco , sul Vipaco , sul bivio di Castegnevizza… No, sul Vipaco ci fui mandato dopo l’offensiva di Maggio dove lì, di un intero battaglione ne sopravvissero 85 o 58 uomini.
Insomma, ho cambiato fronte tre o quattro volte, ma sempre sul Carso.
A metà novembre dello stesso anno (il 1917), i tedeschi scatenarono un’offensiva che sfondò il fronte . In quel periodo (io ed i miei commilitoni) ci trovavamo a riposo nelle retrovie a Codroipo . Sul finire dell’offensiva tedesca, tutto il mio battaglione venne caricato su di una tradotta ed inviato a Gemona, nel Friuli. Viaggiammo tutta la notte e quando la mattina giungemmo a destinazione, si iniziò la salita sui monti sopra Gemona, per raggiungere gli altri, dove i tedeschi avevano sfondato il fronte. In quel punto del fronte vi sostammo due giorni poi, al terzo, i tedeschi arrivarono a ridosso delle nostre postazioni e ci fu dato l’ordine di proteggere la ritirata .
Ma prima che noi giungessimo a Gemona, i tedeschi ci aggirarono e quando vi giungemmo anche noi, li trovammo già lì.
Era il giorno 29 ottobre 1917 e ricorderò sempre la data di quel giorno, perché fu allora che cominciò il mio martirio: lì a Gemona.
I tedeschi ci fecero prigionieri e ci ricoverarono nel palazzo della Prefettura dove ci tennero tre giorni, senza mangiare e senza bere. Nella Prefettura vedemmo un pozzo, ma non vi era la possibilità di attingere acqua da questo, perché non c’era né una corda, né un secchio e questo era profondo almeno otto metri! Ma la sete era tanta, troppa! E così aiutandoci a vicenda, pensammo di costruire una sorta di fune utilizzando le cinture dei pantaloni e, fissata ad uno dei capi, di questa sorta di corda una gavetta, la usammo per attingere l’acqua per dissetare un’intera compagnia di soldati.
Alla sera del terzo giorno , ci dissero che dovevamo metterci in marcia per Tarcento e là ci avrebbero finalmente dato da mangiare. Allora tutti contenti, ci preparammo per partire e ci si apprestava a metterci in viaggio, incolonnati uno dopo l’altro, quando scoprimmo che lì, vicino a noi c’era una latteria e quindi doveva esserci tanto formaggio!... E ne fui sbalordito dalla quantità che ce n’era, ma ad ognuno di noi ne diedero soltanto un quadrettino di pochi centimetri di lato. Potrei dire un paio di bocconi soltanto!!
Comunque partimmo di lì, nonostante tutto contenti, perché ci dissero che a Tarcento ci avrebbero dato da mangiare. Si partì quindi da Gemona e giungemmo a Tarcento verso le tre del mattino. Non appena scorgemmo i primi soldati, domandammo loro: “avete mangiato?” Ma loro domandarono a noi: “avete portato qualcosa da mangiare?” E così, da queste reciproche domande, capimmo sia gli uni che gli altri, che risposte affermative ad entrambe le domande, non ce n’erano.
Delusi alzammo gli occhi e vedemmo, ancora in piena notte, tantissimi piccoli fuochi sparsi un po’ ovunque e domandammo cosa fossero quei fuochi. Ci venne risposto: “questo è il campo di concentramento …”. E noi era tre giorni che non si mangiava! Domandammo dove almeno potessimo dissetarci. Ci fu spiegato, che l’unico modo per bere era accontentarsi di un rigagnolo che passava attraverso il campo, perché in quel posto non c’era altra acqua. Fortuna che almeno quello fu un autunno caldo e certamente non avremmo sofferto troppo il freddo . Evidentemente Dio aveva provveduto anche a quello, ascoltando le preghiere dei prigionieri.
Esaminai l’intero campo e decisi di tenermi sempre nei pressi della strada; da quella posizione si poteva vedere se fossero arrivati dei viveri per i prigionieri.
Un giorno vidi passare una quarantina di soldati (prigionieri), scortati da una guardia tedesca. In quel momento seguii soltanto il mio istinto: senza pensarci troppo, mi buttai in mezzo a quel drappello, senza che nessun tedesco se ne accorgesse e con quei prigionieri, fui portato a Santa Maria di Tolmino . Fu solo lì che ricevetti una scatoletta di carne di maiale bollita ed il suo liquido di conserva, divenne una specie di brodo che mi dissetò.
Lì sostammo una decina di giorni, perché dovevano essere portati gli ordini al comando sul monte S. Maria. Dopo un po’ non ci diedero più una scatola al giorno di carne ed acqua bollita! Al termine di questo breve periodo di sosta, ci ordinarono di metterci in marcia. E così, una mattina partimmo e lungo la strada che stavamo percorrendo, incrociammo una colonna militare e ci dissero di accodarci a loro perché al termine, avremmo finalmente potuto sfamarci.Si camminò tutta la giornata e la sera, fino a mezzanotte. E fu solo a mezzanotte che diedero, ad ognuno di noi, un mestolo di acqua fredda con dentro sciolta un poco di farina. Forse doveva essere della polenta? Ma era così liquida che non fu necessario neppure il cucchiaio: ci bastò berla…”
Il resoconto del nonno purtroppo finisce qui, il resto si è perso.
Come avevo scritto, questo tormento continuo della fame, è il carattere ricorrente del racconto e forse di tutti i racconti di questi uomini. La stessa Croce Rossa ha sottolineato che molti dei prigionieri italiani sono stati lasciati morire di fame dalla loro Patria. E questa è la storia, triste! Immagino anche senza assistenza medica… Visti anche i numeri che riguardano i soldati di tutte le parti in guerra, assistere tutti forse era impossibile.
È doveroso ricordare, ma sarebbe saggio ed ancor più doveroso, non rifare mai gli stessi errori e quindi non ripetere soprattutto, l’errore della guerra che non è, come scriveva Marinetti: “la sola igiene del mondo!”
Manuela Mariuzzo