Pillole di storia Grugliaschese 3
LE GRU CENERINE
Gru cenerina (gus gus) |
Quando
da bambini a scuola facevamo le prime lezioni di educazione civica, e
le nostre maestre, cercavano di spiegarci l’origine del nome del
nostro comune, ci veniva sempre raccontato che il nome Grugliasco,
prendeva origine dalle gru cenerine,
che durante i periodi delle loro migrazioni, attraversavano il nostro
territorio comunale e si fermavano qui per riposare…
Per
noi bambini, immaginare questa bella favola era facile, ed anche
divertente, peccato che la gru in questione, viva a temperature molto
più rigide delle nostre: infatti si può trovare nelle regioni
settentrionali dell’Europa
e dell’Asia
occidentale.
Il numero maggiore lo si osserva nella Russia
e nella Scandinavia
(210.000-250.000 esemplari al giorno d’oggi) e sverni in paesi
molto più caldi (è capace di migrare dal Nord
Europa
e dal Nord Asia
fino al Marocco,
all’Etiopia,
alla Spagna e all’Asia meridionale con i classici stormi
a V).
Vederle quindi era davvero raro e per pochissimo tempo, ore direi.
Ci
veniva insegnato poi dalle maestre, che questi begli uccelli eleganti
e maestosi, si fermavano qui da noi, perché il territorio comunale
era paludoso, perché le gru
europee nidificano in zone paludose (in Scandinavia però! O alle
stesse latitudini)…
Paludoso?
Ma quando mai!? Studi approfonditi, fatti sul sottosuolo
grugliaschese da appassionati di archeologia e paleontologia
dell’associazione “Ad Quintum” di Collegno, ma residenti a
Grugliasco come l’amico Franco Fostinelli (vero esperto del nostro
sottosuolo), hanno sempre dimostrato il contrario: e cioè che
Grugliasco ha un suolo sabbioso e
sassoso. Sulle carte
geologiche il nostro territorio è l’unico della provincia di
Torino ad essere indicato come prevalentemente sabbioso.
Al
tempo dell’ultimo periodo post-glaciale,
si era andato a formare un deserto sabbioso di formazione eolica,
probabilmente freddo, tipo il Gobi cinese.
Con
queste premesse, di quali paludi grugliaschesi stiamo parlando? Il
territorio comunale è così poco ricco di acque proprie, che in
epoca tardo medioevale, si è dovuti ricorrere alla costruzione di un
articolato sistema di canalizzazioni artificiali,
proprio per la necessità di irrigare i terreni agricoli, altrimenti
quasi impossibili da coltivare: le famose bealere!
Certo, alcuni pozzi c’erano ed anche un paio di invasi naturali di
acqua affioranti a livello del terreno, tipo degli stagni. Erano i
così detti “bolenghi”. Il bolengo era
un invaso naturale d’acqua dolce appunto, che veniva anche
sfruttato come peschiera pubblica (così
sono indicati nei documenti dell’archivio comunale) e quindi usato
per l’acqua cultura di pesci come la tinca o la trota a
sfruttamento pubblico; uno di questi bolenghi sorgeva all’incirca
dove si trova ora il pozzo dell’acquedotto, lungo C.so Torino, alle
spalle delle facoltà universitarie, nei pressi del cimitero.
Ma
quella delle bealere e delle acque pubbliche, è un’altra storia…
Non
solo: per rendere coltivabili i terreni, si è anche dovuti ricorrere
ad un continuo “ingrasso” con
argilla. Studi fatti
in vari punti del territorio, in occasione di scavi per cantieri
edili o trivellazioni idriche e ricerche su testi del XIX° sec.,
confermano questo. Ancora nel 1802, vi sono note riguardo la
necessità di ingrasso con argilla per rendere coltivabile la zona di
S. Lorenzo (zona a ridosso del complesso scolastico-universitario,
dove sorge la duna omonima).
L’argilla
si trovava ad est, sul confine con Torino ed a sud, sul confine con
Rivoli, dove si può estrarre argilla adatta alla cottura e quindi
per la realizzazione di laterizi.
Questo
con il tempo ha creato un particolare equilibrio dei nostri terreni,
che ha reso molti appezzamenti adatti alla cultura della vite.
Infatti, nei registri catastali del comune dei secoli passati, molti
erano gli appezzamenti di “terra altenata”.
Cos’era
l’ateno? Una particolare
cultura mista, molto in uso in passato, che vedeva un terreno
coltivato a filari di alberi da frutto, che fungevano da sostegno
alle viti: in pratica una sorta di pergola. Questo sistema,
permetteva di sfruttare al massimo un solo terreno per avere due
raccolti nell’anno: uno di frutti di vario genere (nei documenti
catastali, non sono indicati i tipi di albero fruttifero, ovvio!), e
poi in autunno, un secondo raccolto di uve, per la vinificazione.
Ma
torniamo alle nostre gru.
Le
vie migratorie principali,
della gru cenerina, secondo alcune mappe ornitologiche relative alle
migrazioni, pare non passino neppure sopra le nostre teste! Certo,
magari alcune seguivano questa via dell’aria, ma non in numero così
massiccio, anche se nel 1783 sono segnalati passaggi di gru per un
paio di giorni in primavera: questi passaggi dovevano essere
certamente spettacolari, vista l’apertura alare delle
gru: dai 180 ai 240 cm.!
È
comunque azzardato ipotizzare, che possano dare il nome al nostro
comune, come ipotizza anche un altro studioso di Ad Quintum: Gabriele
Albano, che preferisce seguire la via dell’evoluzione linguistica
nel tempo, delle definizioni toponomastiche dei dintorni, sulla base
delle parlate celto-galliche e liguri.
Come
dicevamo la scorsa volta, è decisamente più logico far risalire il
nome della nostra città al primo proprietario del fundus romano e
cioè, a Currelio (anche se non ci sono documenti certi!). Meno
suggestiva questa ipotesi, ma molto più realistica e pratica.
D’altro
canto, l’arma comunale (lo
stemma araldico della nostra città), è una tipica arma
parlante, ed è facile leggerne
il significato araldico, che non ha nulla a che vedere con il
passaggio migratorio delle gru cenerine.
Ma
questa, quella dell’araldica cittadina, è un’altra storia…
Riferimenti:
“Il
sottosuolo grugliaschese” di Franco Fostinelli:
Notiziario
di Ad Quintum, anno V° - n. 4 – dicembre 1992.
“Il
sottosuolo grugliaschese” di Franco Fostinelli:
Notiziario
di Ad Quintum, anno VII° - n. 1 – marzo 1994.
“Grugliasco,
con o senza gru?” di Gabriele Albano:
Notiziario
di Ad Quintum, anno VII° - n. 1 – marzo 1994.
“Collegno
tra i ghiacci ed il deserto” di Frenco Fostinelli:
Bollettino
di Ad Quintum, Archeologia del Nod-Est, N° 10 – 2002.
Wikipedia.
Manuela
Mariuzzo
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